Il conto alla rovescia per la nascita del governo Draghi è iniziato. Oggi Mario Draghi dovrebbe salire al Quirinale per sciogliere la riserva, presentare la lista dei ministri e probabilmente già per domani giurare. Il tutto in tempo per andare in Parlamento tra lunedì (Senato) e martedì (Camera) per avere la fiducia. Un timing serrato per dare finalmente all’Italia un governo, visto che da almeno due mesi il Paese è paralizzato, cioè dalla crisi avviata da Matteo Renzi.
A spianare la strada il via libera arrivato ieri dal M5S i cui iscritti sulla piattaforma Rousseau hanno per il 59,3 per cento detto sì a un governo tecnico-politico guidato da Mario Draghi. I no sono stati il 40,7 per cento. In tutto sono stati 74mila le persone che hanno votato sulla piattaforma grillina.
Un risultato che ha fatto tirare a molti un sospiro di sollievo dato che fino all’ultimo c’era il timore che i no potessero prevalere. Senza dubbio determinante è stato l’intervento di Beppe Grillo e dello stesso Mario Draghi con l’annuncio per interposta persona, la presidente del WWF, della costituzione di un ministero per la transizione energetica. Quello probabilmente ha dato il balzo decisivo ai sì.
Rimane, comunque, un risultato in chiaro scuro perché se è vero che alla fine i sì hanno vinto rimane una gran fetta di Movimento che si è schierato per il no. Un 40 per cento che adesso potrebbe fare gola a molti che tra i Cinquestelle sono distanti dalla linea governista di Di Maio e Grillo. E gli occhi sono puntati su Di Battista, Lezzi e altri che potrebbero cogliere la palla al balzo e avviare quella scissione che finora è rimasta soltanto una minaccia.
Non a caso subito Alessandro Di Battista ha preso le distanze: «In questo caso la mia coscienza politica non ce la fa, non riesco a digerire questa decisione. Da tempo non sono in accordo con diverse scelte, quindi non posso fare altro che farmi da parte, d’ora in poi non parlerò a nome del MoVimento 5 Stelle, perché il MoVimento 5 Stelle non parla a nome mio». Insomma, venti di scissione.
E senza dubbio il Movimento che adesso entra nel governo è politicamente indebolito. Adesso bisognerà vedere se lo sarà anche nei numeri e questo dipende dalle dinamiche che si potrebbero aprire all’interno dei gruppi parlamentari con possibili uscite. A preoccupare è soprattutto il Senato (si parla di 7 senatori pronti a non votare la fiducia) dove come si sa i numeri sono sempre ballerini, anche se l’ampia maggioranza di cui sembrerebbe poter disporre il governo Draghi, in sostanza soltanto Fratelli d’Italia all’opposizione, non dovrebbe creare problemi. Ma si tratta di calcoli che si potranno fare a squadra di governo completata.
Infatti, il prossimo scoglio è appunto la lista dei ministri. Su questo permane il riserbo più totale. Non trapela quasi nulla tanto che la sensazione è che alla fine Draghi sceglierà da solo la compagine di governo non facendosi più di tanto condizionare dai partiti. Terrà conto delle loro sensibilità raccolte nel corso delle consultazioni, ma senza farsi imprigionare.
Su questo ha il Quirinale dalla sua parte, che peraltro anche sui tempi sembra non voler mettere fretta a Draghi. Si racconta, infatti, che il Capo dello Stato sarebbe disponibile anche a concedere qualche altro giorno di riflessione all’ex governatore della Bce pur di arrivare ad una quadratura solida del cerchio.
Dal presidente incarico, come detto, al momento non trapela nulla. Fitto riserbo. Quello che non si può dire delle varie forze politiche. Detto del M5S, il Pd proprio ieri ha dato nel corso della Direzione nazionale il via libera all’ordine del giorno del segretario Nicola Zingaretti sul sostegno al governo Draghi.
Messo da parte Conte, Zingaretti ha ricordato che «il successo del governo attorno al professore Draghi dipende dall’unità di M5s, Leu e Pd. Ognuno in buona fede non può non riconoscere che anche il professor Draghi avrebbe avuto difficoltà senza questa maggioranza».
Pensiero condiviso anche dal vicesegretario Andrea Orlando il quale ribadisce che «senza l’asse politico fra Pd e M5s non ci sarebbe il governo Draghi e lo dico oggi con maggiore convinzione dopo l’esito di Rousseau. Perché lo scarto fra i sì e i no è esiguo. Se le cose fossero andate diversamente, la nostra posizione sarebbe stata più difficile di quanto è oggi».
Anche sul fronte leghista si analizza il dato del voto su Rousseau dando però un’analisi diversa: «59 a 41 è spaccato – ha spiegato a Porta a Porta Matteo Salvini. Per il governo Draghi nascente non è un buon segnale. Quello che era il primo partito italiano, anche se ormai non lo è più, è totalmente spaccato nonostante i sì di Conte, Grillo, Di Maio. A maggior ragione ci sentiamo responsabili della missione e della buona riuscita, come Lega e come Forza Italia».
In realtà fonti leghiste danno un’ulteriore lettura sottolineando, non senza un pizzico di soddisfazione che «in questa situazione è ancora più importante il ruolo della Lega e di Fi». In realtà l’intento del vertice leghista è di accreditare la tesi che la spaccatura grillina renda nel governo più preponderante il peso delle forze di centrodestra, per puntare così il dito contro FdI la cui defezione avrebbe impedito di spostare in maniera decisa l’asse governativo verso il centrodestra.
Analisi che però non sembrano suffragate dai numeri visto che, indipendentemente dalle divisioni, Pd-M5S-Leu continuano a godere della maggioranza e che quindi anche con FdI il centrodestra non sarebbe riuscito ad imporsi. La verità, piuttosto, è che la Lega attraverso questa lettura degli eventi cerca di mettere sotto pressione FdI di cui adesso teme la libertà di movimento.
A sua volta Giorgia Meloni continua a rivendicare la sua scelta: «Era necessario fare opposizione al governo Draghi. In un sistema democratico l’opposizione deve esistere, è una garanzia per tutti. Come ho detto a Draghi, Fdi intende fare una opposizione costruttiva: se arrivano provvedimenti che fanno bene all’Italia i nostri voti ci saranno». E riguardo la vittoria dei sì su Rousseau commenta: «Il quesito che ha fatto il Movimento 5 Stelle era vagamente indirizzato, un quesito adeguato al Giovedì grasso. L’ho trovata un’adeguata carnevalata. Per come era indirizzato il quesito, il fatto che il 60 per cento abbia detto di sì vuol dire che con un quesito normale avrebbe vinto il no».
Schermaglie in vista del confronto in Aula che, come detto, dovrebbe essere all’inizio della prossima settimana e lì finalmente sarà tutto più chiaro. A partire dalla fisionomia di questo governo: più tecnico o più politico?
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