L’appuntamento è per oggi alle 12 alla Camera. Il primo atto del governo Conte bis per cercare di rimanere in sella e continuare la sua stagione politica anche senza Italia Viva. In realtà il clou sarà domani dalle 9.30 quanto Giuseppe Conte sarà al Senato.
Infatti, la situazione a Palazzo Madama per la maggioranza giallorossa è più complicata. Anzi a dirla tutta sul filo del rasoio visto che senza Italia Viva la quota di 161 senatori, cioè la maggioranza assoluta, sembra abbastanza lontana.
Per questo da giorni è partita la caccia ai ‘costruttori’, cioè i responsabili del 2021, che dovrebbero sostenere il governo in sostituzione dei 18 senatori di Italia Viva che hanno deciso, almeno per il momento, di astenersi. La situazione appare ancora complicata e anche il vertice di maggioranza con i capigruppo non ha portato buone notizie, anzi ora dopo ora l’ipotesi di poter avere la maggioranza assoluta a Palazzo Madama sembra una chimera.
Non è un caso che ieri sera da Massimo Giletti, a Non è l’Arena, Matteo Renzi abbia sentenziato: «Qui i numeri non ci sono. E’ vero che possono avere la maggioranza relativa al Senato ma i 161 no». Dichiarazioni che sembrano ricalcare quella che è la realtà e cioè che al massimo il governo potrà muoversi nell’ambito di una maggioranza relativa.
Epilogo che soltanto due giorni fa sembrava scongiurato. Giovedì quando Conte aveva deciso per la sfida in Aula sembrava a portata di mano l’obiettivo di costituire un gruppo al Senato che avrebbe dovuto sostituire quello di Italia Viva e dare i numeri necessari a raggiungere la quota 161. Era stato anche annunciato il gruppo Maie Italia 2023 che avrebbe dovuto accogliere i nuovi senatori.
Poi nella giornata di venerdì la doccia fredda con l’Udc, su cui molti nella maggioranza contavano, che si è sfilato annunciando che sarebbe rimasto nel centrodestra. A questa defezione poi si è aggiunta la resistenza del gruppo di Italia Viva visto che secondo molti non avrebbe tenuto, aprendo a un vero e proprio esodo verso la maggioranza. Esodo che invece non c’è stato.
E così ora dopo ora quelle che sembravano certezze sono diventati sogni, al punto che ormai nella maggioranza in molti si stanno orientando verso il minimo risultato e cioè la maggioranza relativa.
Un numero che potrebbe non bastare al Quirinale se adottasse lo stesso metro che utilizzò nel 2011 quando Giorgio Napolitano accettò le dimissioni del governo Berlusconi IV che sul rendiconto di bilancio alla Camera non raggiunse la maggioranza assoluta ma si fermò 3 voti sotto. Accadrà lo stesso? C’è da dubitarne, anche se il vero nodo saranno le Commissioni e non il voto dell’Aula. Infatti, con una maggioranza così striminzita quasi certamente nelle Commissioni il governo sarà spesso in minoranza, il che significa il caos totale.
Ecco perché sono in molti a guardare più alle settimane a seguire piuttosto che martedì. Ciò nonostante, l’obiettivo almeno per il momento è quello di fare un passo alla volta e quindi di cogliere per ora il risultato al Senato. Nicola Zingaretti ieri sera cercava di infondere fiducia spiegando da Barbara D’Urso che «prevarrà il buonsenso» e che i numeri per la fiducia al governo «ci saranno». Intanto, però lancia già un avvertimento a Conte: «Intanto proviamo ad andare avanti, poi discutiamo di tutto». A conferma che per il Pd è indispensabile fare una riflessione sul governo.
Ciò spiega anche la ragione per cui dietro le quinte nella maggioranza non si dà per scontato un possibile rientro di Matteo Renzi, soprattutto se il governo non dovesse raggiungere la quota di 161 senatori. Sempre ieri Ettore Rosato è tornato a chiarire che: «il presidente Conte, se vuole, la crisi la risolve oggi pomeriggio, non occorre neanche andare in aula. Se pensa di aver fatto tutto bene, allora si andrà avanti. Se pensa che ci sono sue responsabilità che è pronto a mettere sul tavolo in una riunione con la coalizione, allora i problemi si risolvono in due ore. Se invece c’è una chiusura vuol dire che ce li porteremo. Ma non mancheranno i nostri voti sui provvedimenti».
Parole che suonano più come un’apertura che come una chiusura. Questo chiarisce anche perché Conte stia lavorando a un intervento dai toni molto diversi rispetto a quello che tenne all’epoca della sfiducia di Matteo Salvini. Vero che allora dalla Lega giunse la mozione di sfiducia, mentre Renzi finora non ha mai parlato di sfiducia, ma in realtà Conte non ha alcuna intenzione di personalizzare e drammatizzare lo scontro con Renzi.
Vuole piuttosto lanciare un appello alla responsabilità, tratteggiando un piano che, da qui alla fine della legislatura, possa garantire all’Italia il rilancio necessario dopo la pandemia. La chiave senza nemmeno dirlo sarà il Recovery Fund. Insomma, il premier cercherà di parlare più al Paese che a Renzi. E naturalmente questi toni potranno essere utili anche nel caso di una futura ricomposizione, ma è evidente che il tutto è rimandato a dopo la conta in Parlamento.
Conta alla quale si sta preparando anche il centrodestra. Il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, al Tg2 dice: «Noi aspetteremo domani, valuteremo gli esiti e poi decideremo cosa fare a seconda di come andranno le cose. Il centrodestra è attrattivo per coesione, per progettualità. E’ ovvio che tutti guardano a noi come futura forza di governo».
E Giorgia Meloni continua a ripetere: «Ancora oggi leggo sui giornali ricostruzioni di molteplici scenari sul destino del governo della Nazione. Per Fratelli d’Italia l’unica via percorribile rimane la stessa: ELEZIONI SUBITO. Basta perdere tempo».
Tutto dipenderà dal voto di domani a Palazzo Madama. Se il governo non dovesse nemmeno ottenere la maggioranza relativa è evidente che la crisi rischierebbe di avvitarsi e l’ipotesi delle urne potrebbe farsi sempre più concreta. Ma fino ad allora la ‘corsa al responsabile’ continuerà in maniera febbrile.
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