Ma il tempo della permanenza a Napoli di Garibaldi volse velocemente a termine. Il 21 ottobre del 1860, infatti, il risultato di un plebiscito determinò la definitiva annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte: plebiscito indetto dopo che re Vittorio aveva già preso possesso del territorio delle Due Sicilie, allo scopo di dimostrare alle potenze europee ed agli stessi suoi neosudditi che lui non arrivava a Napoli per sua volontà ma perché era il popolo a volerlo, fingendo così di non sapere che nessun napoletano lo aveva invitato e che la discesa e l’occupazione nel territorio borbonico era stata un’idea tutta sua.
Ma, in verità, più che di un referendum si trattò di una farsa. La nuova Italia, insomma, non solo nasceva con l’inganno e la violenza. Ma in più, faceva le prime prove di manipolazione del voto.
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Per rendersene conto basta fermarsi un attimino a rileggere le cronache dell’evento, così come si svolse a Napoli, tramandateci da Giacinto De Sivo e da Nicola Nisco. «Distribuiti in maniera capillare su tutto il territorio napoletano, garibaldini e camorristi fecero di tutto per convincere la gente a votare “sì”. Ciascun seggio elettorale era fornito di due urne palesi: in una andavano imbucati i “sì”, nell’altra i “no”. Un modo come un altro, come scrive il De Sivo “acciò la paura vincesse la coscienza».
In queste condizioni «chi osava stender la mano a’ no?». E non solo: perché fosse ancora più difficile esprimersi contro l’annessione, l’urna dove avrebbero dovuto essere imbucati i “no” era tenuta rigorosamente coperta da “nazionali e camorristi”; in più, laddove qualcuno avesse osato, comunque, trovare il coraggio necessario a farlo, era immediatamente dissuaso a metterlo in pratica dal roteare dei bastoni e dal luccichio dei coltelli che questa “brava gente” teneva fra le mani con fare minaccioso ed in maniera estremamente evidente.
Alle urne Garibaldi arrivò per primo
Il primo a votare fu il dittatore, subito dopo il suo vice, poi il consiglio municipale, infine i garibaldini: anche gli stranieri, quelli cioè che con Napoli ed il Regno delle Due Sicilie, non avevano alcunchè da spartire, oltre il fatto, naturalmente, di aver partecipato alla spedizione di conquista.
Le operazioni di voto si svolsero in tutto il territorio del Regno in un clima di assoluta violenza, che in Sicilia si trasformò addirittura in baruffe, tumulti e qualche spargimento di sangue. Ma non solo il De Sivo, il Nisco o Pietro Carlo Ulloa, nelle sue “Lettres napolitaines”, condannarono il modo in cui questo referendum si era svolto, denunciandone, quindi, la regolarità.
Luciano Murat, infatti, si spinse ancora oltre e affermò che, almeno a Napoli, non si poteva definirla semplicemente una farsa, ma molto di più: anzi «stava tra la corruzione e la violenza». Tutto questo il Murat lo aveva rilevato dal comunicato che il ministro inglese a Napoli, l’Elliot, aveva inviato al proprio governo. Nella nota, infatti, il rappresentante dell’Inghilterra sottolineava come «moltissimi a Napoli vogliono l’autonomia, ma sono sforzati a votare per l’annessione; e infatti la formula del voto e il modo di raccoglierlo sono sì disposti che assicurano la più gran maggioranza possibile per l’annessione, ma non a constatare i desideri del Paese».
Ma stigmatizzava anche come «i risultati delle votazioni a Napoli e in Sicilia rappresentano appena i diciannove tra cento votanti e designati; e ciò ad onta di tutti gli artifizi e le violenze usate».
Ancora più duro, nella valutazione della farsa plebiscitaria, fu l’autore delle “Divagazioni storiche e storiografiche” pubblicate a Napoli nel 1960, Ernesto Pontieri, secondo il quale essa concludeva per Napoli «il ciclo della sua storia, sette volte secolare, che ne aveva fatto il capoluogo politico e morale di un regno autonomo, e un nuovo ciclo di storia avrà per essa inizio nella allettante prospettiva d’un totale rinnovamento entro la cornice d’un contesto politico non solo più ampio e razionale, ma anche palpitante di fede nei valori della civiltà moderna, da cui in ultima analisi era nato».
E l’Italia fu
Ciò nonostante, il 3 novembre del 1860 a Largo di Palazzo (cui per l’occasione era stato attribuito il nome di piazza del Plebiscito, che ancora conserva) proprio davanti al Palazzo Reale fu preparato un grande palco, addobbato a festa con tricolori e bandiere, sul quale fu organizzata un’imponente manifestazione di giubilo, durante la quale il duca Niutta, presidente della Corte di Giustizia, proclamò l’esito del voto, dichiarò decaduta la Real Casa Borbone e decretò l’annessione dei territori di loro proprietà al Piemonte, al Regno Sabaudo e, quindi, a Casa Savoia.
La festa, però, non durò molto a lungo. «Esauritisi – scrive ancora il Pontieri – gli entusiasmi risorgimentali e svaniti i vantaggi che Napoli traeva dall’essere capitale di uno stato autonomo e dalle conseguenti premure che tale ufficio le procurava da parte del governo, la città, nel confronto con le consorelle meglio provvedute dell’Italia del Nord, scoprì a se stessa e allo Stato italiano, di cui era diventata parte viva e vitale, la propria realtà umana e civile».
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