Il corteo, sistematosi sul convoglio, era in verità abbastanza numeroso: esso era composto dai due messi napoletani (inviati a Salerno dal presidente del Consiglio borbonico, Antonio Spinelli, per trattare la resa di Napoli e del Sud ai nuovi padroni), dal principe d’Alessandria sindaco della città, dal comandante della Guardia Nazionale generale De Sauget, dal Cosenza, dal Bertani, dal Nullo, dal Missori, da frà Pantaleo, un francescano armato fino ai denti, da ufficiali garibaldini e da ufficiali della Guardia Nazionale.
Tutti costoro scortavano Giuseppe Garibaldi che appunto arrivò a Napoli su un treno speciale appositamente approntato per trasferirlo da La Cava (l’attuale Cava dei Tirreni) alla capitale.
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Il condottiero, che così potè verificare anche la funzionalità della neonata ferrovia del Regno delle Due Sicilie, giunse in città soltanto qualche giorno dopo che il vecchio sovrano e la sua famiglia se n’erano andati, lasciando a presidio della città qualche migliaio di soldati ma ordinando ad essi di non sparare neanche un colpo, a meno che non fossero stati attaccati.
E le cose andarono proprio come i reali borbonici si erano augurati. Non un colpo di cannone, non un proiettile, non una scarica di piombo rovente partono dalle artiglierie posizionate sugli spalti del forte del Carmine e da quelle di forte Sant’Elmo, in direzione del “liberatore”.
Garibaldi cerco d’ingraziarsi i cittadini del Sud
Del che fu lietissimo Garibaldi che, per ingraziarsi i napoletani, si era fatto precedere da un accattivante proclama nel quale aveva provveduto a definirli come un popolo che «secoli di dispotismo non han potuto umiliare né ridurre a piegare il ginocchio avanti la tiranni».
Intanto perché, il suo sogno – per altro più volte esternato (per dirla con un termine, oggi, molto in voga) – era quello di evitare qualsiasi ed inutile spargimento di sangue. Ma anche perché desiderava dimostrare all’Europa intera che egli “occupava” Napoli non con la forza, bensì per volontà della gente e tra gli applausi dei popolani.
Ma torniamo al convoglio ferroviario che, composto da 4 vetture, era partito alle nove del mattino: su di esso avevano trovato posto una ventina di persone dello stato maggiore garibaldino, mentre tetti e spazi liberi erano stati totalmente occupati dagli uomini della Guardia Nazionale. Il viaggio proseguì lentamente. Lungo il percorso, infatti, il treno si imbattè nelle popolazioni delle cittadine intermedie: gli abitanti di Nocera, Angri, Torre Annunziata, Torre del Greco, Portici e Resina, si accalcavano lungo i binari, obbligando le vetture a reiterate soste per evitare di travolgere la folla urlante.
Settembre era appena cominciato e l’estate era ancora viva. Fuori dalla stazione di Napoli, i viaggiatori montarono su alcune carrozze, “spedite” lì da quelli che, dopo aver servito i Borbone, si preparavano adesso a piegare la schiena davanti al nuovo padrone nel tentativo di conservare gli antichi privilegi. La folta delegazione, dunque era attesa per essere trasferita laddove c’era ad aspettarla una rappresentanza dei vecchi “papaveri” della città. Così, qualche minuto dopo, facendosi largo fra due ali di folla composta da gente comune ma anche da “lazzaroni”, la processione garibaldina arrivò a Largo di Palazzo (l’attuale piazza Plebiscito) e si fermò davanti al Palazzo della Foresteria (l’odierno palazzo della Prefettura).
Un bacio costato davvero troppo
Qui, l’autoproclamatosi dittatore del Regno di Napoli, Garibaldi fu accolto da Mariano D’Ayala che, dopo avergli rivolto il rituale discorso di benvenuto, lo salutò con un bacio.
Mai, in verità, una dimostrazione d’affetto ed un “apostrofo rosa” furono pagati così cari, come quelli rivolti nell’occasione dal D’Ayala all’invitto “eroe dei due mondi”, che però, in quel momento, rappresentava le ragioni dell’Italia sabauda, spintasi al Sud ufficialmente per unificare l’Italia e liberare così il Mezzogiorno dalle dominazioni straniere, ma in realtà intenzionata ad allargare i confini del proprio dominio, anche nella speranza di rimettere un attimino in sesto i propri traballantissimi conti pubblici.
Qualche ora dopo, terminata la cerimonia di benvenuto, il corteo si riformò e, passando da via Toledo e Foria, giunse alla Cattedrale perché, ben conoscendo la devozione dei napoletani verso il proprio Santo Patrono, Garibaldi aveva ritenuto doveroso rendere omaggio alle reliquie di San Gennaro. Concluse le formalità, il dittatore si fece accompagnare a Palazzo d’Angri, designato dalle autorità locali come suo “quartier generale” e residenza privata.
Il giorno successivo, l’8 settembre, l’”eroe” decise di partecipare alla festa di Piedigrotta, per poter ossequiare la Vergine. Poi, rientrato nella sua dimora, cominciò – nella sua veste di “neo, e provvisorio, padrone della città” – ad assumere decisioni politiche e a far di conti. E furono deliberazioni e conti davvero salati per gli ex sudditi del Regno di Napoli.
Un governo composto da picciotti e filibustieri arrivati a Napoli con Garibaldi
Iniziò con l’annettere la flotta napoletana (cinque navi fornite di cannoni la cui potenza di gittata era decisamente superiore a quella delle navi nemiche); poi continuò con la formazione di un governo provvisorio che lasciò a casa moltissimi personaggi di spicco, fra i quali Silvio Spaventa e tutti i componenti del Comitato d’Azione, per far posto a picciotti e filibustieri, arrivati a Napoli al seguito dell’esercito garibaldino.
Composto il governo, le prime decisioni dell’eroe in camicia rossa riguardarono l’incameramento dei beni ecclesiastici, l’abolizione del gioco del lotto e dei passaporti per alcuni Stati. Provvide, inoltre, a definire la confisca di tutti i beni della famiglia reale, fra i quali 11milioni di ducati che Francesco II, partendo da Napoli, aveva lasciato nelle casse di alcune banche partenopee.
Con parte di questi fondi furono risarciti dei danni subiti per motivi politici coloro che, dal 1848 in avanti, avevano congiurato contro la famiglia reale. Contro quest’appropriazione protestarono in molti: da Scialoja a Poerio, da Massari a Caracciolo, da Spaventa allo stesso Francesco II che dall’esilio di Gaeta scrisse a tutte le nazioni europee per denunciare il “sopruso”.
«Non essendo bastato – scriveva il deposto monarca – alla rivoluzione di prendere inestimabili ricchezze artistiche che, proprietà della mia casa, avevo lasciato godere ai miei popoli; non essendo bastato alla rivoluzione di confiscare i maggioraschi, le doti delle principesse, le sostanze delle orfane in esilio, i legati del defunto re ai poveri, l’eredità di Cristina Venerabile; non appagandosi delle confische, distribuiscono i beni privati della famiglia reale a chi da dodici anni cospirò contro di essa, contro il trono e la società».
Successivamente – come, del resto, succede sempre quando cambiano i padroni – il governo rivoluzionario cercò di cancellare anche il ricordo della precedente dinastia. Sicchè furono mutati i nomi di tutte le strade intestate a personaggi della decaduta famiglia reale; vennero eliminati tutti gli stemmi e abbattuti tutti quei monumenti che potessero, anche se in maniera superficiale, riportare alla memoria dei napoletani i Borbone.
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