A questo punto, dal momento che proprio nelle righe finali del capitolo precedente abbiamo detto che il benessere degli abitanti del Sud crebbe soprattutto con l’ultima dinastia preunitaria e che fu prodotto proprio dalla lungimiranza della politica economica dei Borbone, ci sembra anche giusto, su questo argomento, proporre una riflessione.
Una politica economica che non ha mai goduto delle particolari simpatie della critica che, più volte, l’ha definita come un «fallimento autarchico», conseguenza del «protezionismo paternalistico» di cui, per farle crescere, i sovrani circondarono le industrie meridionali: critica che non si fece alcuno scrupolo di svalutarle, descrivendole come dei semplice e traballanti «baracconi di regime».
Tutto questo, fingendo di non sapere, o quantomeno ignorandolo strumentalmente, che la “ratio” cui i Borbone avevano improntato l’intervento dello Stato nell’economia era orientata a produrre uno sviluppo diretto e sorretto dal Governo centrale ed aveva come principale obiettivo quello di preservare e sostenere soprattutto le esigenze e le necessità dei ceti popolari e della gente più umile.
Dazi sull’esportazione dei prodotti alimentari per poterli vendere ai meridionali a prezzi più bassi. E gli agrari cominciarono ad avversare la dinastia
Tant’è che la necessita d’imporre dazi sull’esportazione dei prodotti alimentari, era dovuta all’esigenza di lasciarli all’interno dello Stato al fine di poterli vendere ai residenti dell’area a prezzi più bassi, quelli cioè che oggi definiremmo “politici”. Cosa che, nel mentre da un lato consentiva di esaudire le esigenze primarie e di sopravvivenza della popolazione, dall’altro colpiva e duramente gli interessi degli agrari.
Nessuna sorpresa, quindi, che costoro – come tutti quelli che agli interessi della collettività antepongono i propri – immediatamente si trasformassero nei principali e più agguerriti nemici della dinastia borbonica e nei più autorevoli ed accesi fautori della nascita di uno Stato unitario, ovviamente a guida piemontese, dal momento che i sovrani “savoiardi” non avevano mai nascosto la propria disponibilità a mettere in campo una politica liberistica che tendesse anzitutto a difendere i loro interessi, anche se a discapito di quelli dei cittadini del Regno e in particolare dei meno abbienti.
La borghesia delusa dell’interessamento della monarchia verso i più umili, tolse alla dinastia borbonica il proprio sostegno
Nè la borghesia, e per le stesse ragioni, si comportò in maniera diversa. Anzi, delusa dall’interesse della monarchia verso gli “ultimi” e la gente più umile, si rese protagonista della stessa scelta pro Savoia ed antiborbonica, sottraendo alla Dinastia “duosiciliana” il sostegno politico delle classi socioeconomicamente più significative del territorio meridionale.
Le classi abbienti, dunque, si posero in contrasto con i “fan” della politica economica diretta dalla monarchia, convinti questi ultimi che le Due Sicilie, essendo un piccolo Stato, non avrebbero mai potuto raggiungere la potenza economica dell’Inghilterra e della Francia e che quindi era giusto difendere le esigenze dei cittadini con il ricorso ad un sistema di “economia protetta”, attraverso l’imposizione di dazi sull’importazione e l’esportazione, che si preoccupasse soltanto della soddisfazione dei consumi interni.
Come si legge in “Come il Meridione divenne una Questione”, edito da Rubettino nel 1998, l’autrice Maria Petrusewicz sostiene che «una politica economica che pretendeva di produrre tutto e di trovare all’interno i consumatori di tutto, non poteva che fallire ed un progresso industriale ottenuto a forza di dazi non poteva che essere rachitico» e che «solo una politica economica liberista avrebbe potuto fare da volano all’economia del Mezzogiorno aumentando, in questo modo, anche gli introiti fiscali, utili a ridurre il debito pubblico». Ovvio, quindi, che – come succede in tutte le occasioni in cui un’idea si fa strada nell’opinione pubblica – questa diatriba finisse per avere ripercussioni anche nel mondo accademico e universitario.
E per le due Sicilie, avere una scuola invidiata da tutti e la Federico II, prima università nata in Italia, diventò un boomerang contro i borboni
E fu proprio quello che avvenne, dal momento che proprio il Sud poteva contare su di un sistema d’istruzione e su una scuola invidiata da tutti e che proprio a Napoli, grazie a Federico II, il 5 giugno del 1224 era nata la prima Università e che nel 1754 era stata istituita la Prima cattedra universitaria al mondo di Economia Politica, affidata ad Antonio Genovesi.
La svolta arrivò, però, intorno al 1850, quando si fece più spinto un liberismo sostenitore dell’iniziativa privata, dell’abbattimento delle barriere doganali e, quindi, dell’abolizione dei dazi su import ed export, nonché della rinuncia dello Stato a intervenire direttamente sulle questioni economiche.
In verità, i due schieramenti in campo (agrari e borghesi, fautori del libero mercato, da una parte, e partigiani dell’intervento pubblico dall’altro) sono stati entrambi accusati, e si sono accusati vicendevolmente, di avere come unica musa ispiratrice delle rispettive posizioni le proprie esigenze: i primi di essere diventati sostenitori dell’unità, perché preoccupati di vedere crescere i loro interessi economici, per arricchirsi ulteriormente, e i secondi, a loro volta, di essersi schierati a fianco della monarchia borbonica, contro il movimento unitario, sostenitore del liberismo in economia, solo perché questa assicurava loro cariche e prebende pubbliche.
Ma le critiche e le diatribe fra la borghesia e gli umili, non impensierì più di tanto Federico II, convintissimo della bontà della propria politica economica
Il che, però, non cambiò di un punto le strategie di politica economica di Ferdinando II che, convinto della giustezza delle proprie tesi e della bontà dell’intervento del governo nell’economia, rafforzò e sostenne, ancora con più forza, l’attività dell’Istituto d’Incoraggiamento che, nel 1847, da organismo dipendente del Ministero dell’Interno, passò alle dipendenze dell’appena istituito Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio.
Compito di questo organismo centralizzato era quello di coordinare il lavoro delle svariate Società economiche istituite durante gli anni dalla dominazione francese, e successivamente potenziate dai Borbone che ne ampliarono il campo di azione, originariamente collegato alla sola agricoltura e poi esteso anche all’industria, al commercio e all’artigianato: a queste società gli amministratori regi dovevano fornire funzionari pubblici provinciali (gli intendenti), ma anche informazioni e analisi statistiche e prospettiche sulle diverse attività produttive, ma soprattutto dovevano provvedere ad allargare l’”istruzione tecnica specifica” allo scopo di ottimizzare il lavoro di funzionari e addetti dei vari settori economici.
Analoghe istituzioni esistevano ed operavano anche negli altri Stati italiani ed europei ma, dappertutto o quasi, erano società private, mentre nelle Due Sicilie erano filiazione del governo centrale. Ciò, però, non impedì ad esse di conquistarsi col trascorrere degli anni sempre maggiore autonomia, indipendenza e rispetto.
Grazie ai Borbone nell’immediata vigilia dell’unificazione la Campania era la regione più industrializzata d’Italia
Fu, quindi, proprio grazie agli indirizzi di politica economica dettati e realizzati da Ferdinando II, se nel 1843 operai e artigiani napoletani rappresentavano già il 5 per cento dell’intera popolazione occupata, per poi crescere fino al 7 nell’immediata vigilia dell’unità, toccando vette dell’11 in Campania, regione in quel momento più industrializzata d’Italia. Percentuali in perfetta linea con quelle denunciate dagli altri Stati preunitari. E c’è anche da aggiungere che nel 1860 nella parte continentale del regno erano insediate ben 5.000 fabbriche.
E a dimostrazione che la monarchia del Sud non governò in maniera dispotica ed autoritaria, v’è la constatazione che proprio la classe operaia dell’Italia del Sud fu, come sottolinea sempre Tommaso Pedio, la prima in Italia a scendere in piazza e a dare vita a manifestazioni di protesta per chiedere aumenti salariali e migliori e più adeguate condizioni di lavoro. All’epoca era il datore di lavoro a fissare salario e orario di lavoro, eppure, come riporta lo stesso autore citato prima, in occasione del Congresso degli Scienziati, tenutosi a Napoli nel 1845, fu affermato che essendo nel Regno delle Due Sicilie «più facile e meno caro il vitto, non è il caso di apportare variazioni salariali».
Certo, la bilancia commerciale del Regno delle Due Sicilie era in attivo negli scambi con gli altri Stati preunitari italiani, fatta salva la Toscana; ma era in passivo con le potenze europee, ad eccezione dell’Austria: se proviamo, però, a confrontare i dati relativi al 1838 con quelli analoghi del 1855, ne ricaviamo segnali di ripresa e il dato di una ininterrotta ed inarrestabile crescita economica dello Stato del Sud negli anni dei Borbone.
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