Il 19 novembre di diciassette anni fa si spegneva a Napoli lo scrittore e giornalista Michele Prisco. Nato e cresciuto a Torre Annunziata, in una famiglia di giuristi di lunga e illustre tradizione, dopo la laurea in legge, folgorato soprattutto dalla lettura di Flaubert, seguì un altro destino e si dedicò alla produzione letteraria.
Quest’anno ricorre anche il centenario della sua nascita, avvenuta il 4 gennaio del 1920. Il ricordo del grande scrittore (Premio Strega nel 1966 con “Una spirale di nebbia”), quindi, è oggi doppiamente significativo. Anche e soprattutto perché è uno spunto per rileggere i suoi scritti, nei quali ha raccontato cose di un passato che si fa sempre più lontano ma che, a ben vedere, resta incredibilmente attuale.
Rifiutando di essere bollato semplicisticamente come uno “scrittore meridionale”, Prisco amava definirsi un “meridionale scrittore”. E l’elemento geografico è un aspetto predominante nella sua produzione letteraria, ben visibile soprattutto nella sua opera d’esordio, “La provincia addormentata”, pubblicata nel 1949.
In questa raccolta di racconti Michele Prisco scruta il paesaggio vesuviano e, con esso, i personaggi che lo popolano. E indaga sulla loro psicologia, che si fa essenza dello stato mentale di quella porzione di territorio che comprende le contrade di Leopardi e Santa Maria La Bruna nel Comune di Torre del Greco e l’odierno Comune di Trecase, lì dove si trovava la villa di famiglia, residenza vacanziera dello scrittore durante l’infanzia (indice della spiccata dimensione intima del componimento).
Nell’opera un contado soporoso fa da cornice a un ‘sonno’ che si rivelerà ben più grave, quello della borghesia locale, costituita da individui facoltosi che si trascinano con colpevole pigrizia nel solco dei loro vincoli di amicizia e di solidarietà affaristica, economica e professionale. Un ‘ozio’ e una chiusura autoreferenziale che sono alla radice del successivo profondo decadimento, cui lo stesso scrittore assisterà, e del territorio e della borghesia stessa.
Ed ecco che lo sguardo si volge ai giorni nostri: nulla racconta meglio la crisi che attraversa questo tratto di terra ricompreso tra il Vesuvio e il Golfo di Napoli dell’annoso smarrimento, anche (se non soprattutto) morale, della locale borghesia. Tanto da far arrivare a porre, non poche volte, una terribile domanda: ha ancora senso parlare di borghesia illuminata, alla quale guardare nel tentativo di trovare le energie necessarie (e, quindi, i soggetti giusti) per risollevarci da un oggi così cupo?
Ecco perché ricordare Michele Prisco e rileggere in particolar modo alcuni dei suoi scritti significa aprire uno squarcio sulla nostra attualità e provare a fare i conti con noi stessi. Un esercizio utile anche in chiave politica.
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