Barry Goldwater: colui che fece del conservatorismo una riserva d’energia vitale per i popoli

di Gennaro Malgieri

Quando il giovane senatore americano Barry Goldwater, alla fine degli anni Cinquanta, si pose alla testa del movimento conservatore molti furono gli scettici che lo criticarono. Il conservatorismo era, al tempo, non più che una parola. In pochi lo vivevano come una concezione del mondo e della vita, seguendo gli insegnamenti di Edmund Burke.

Goldwater comprese prima di altri la portata della decadenza che minacciava gli Stati Uniti; iniziò un lungo cammino per dare un’anima al partito repubblicano e, dunque, legarlo, quanto più possibile all’idea di conservatorismo, riserva, a suo giudizio, di energia cui attingono i popoli nelle loro ore più drammatiche. Qualcuno lo trattò da ingenuo. Poi si fece strada. Senza Goldwater non ci sarebbero stati Nixon, Ford, Reagan, i due Bush.

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Le sue idee il senatore repubblicano le raccolse in un libro che in Italia venne pubblicato nel 1962 dalle Edizioni del Borghese: Il vero conservatore, nella straordinaria traduzione di Henry Furst. Non divenne un caso per via del conformismo che dominava la cultura del nostro Paese. In esso Goldwater si proponeva di dimostrare come il conservatorismo rappresentasse, burkianamente, la “salvezza nazionale”, di fronte all’incedere della malattia sociale che stava contagiando l’America e l’Occidente.

Goldwater offrì una speranza al movimento conservatore americano e gli diede una
prospettiva politica. Di lì a poco “fuse” tutte le tendenze antiprogressiste nel Grand Old Party e pose le premesse della “rinascita”. Lanci nel contempo, una sorta di religiosità politica del conservatorismo. Inequivocabili le sue parole: «Il bene più sacro che un uomo possegga è la sua anima individuale, che ha un lato immortale, ma anche un lato mortale». Come dire l’irruzione del sacro nella politica. Un tema attualissimo.

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