Scene da un coprifuoco: se De Luca ora è il nemico da abbattere

di Claudio Bergamasco

“Il popolo in rivolta contro De Luca”. Si potrebbe essere tentati di fotografare così le proteste contro il coprifuoco disposto dal presidente della Campania (e contro il da lui minacciato lockdown) andate in scena nelle ultime ore per le strade dei principali centri della Regione e che, a Napoli, è sfociata in una vera e propria guerriglia urbana.

Di certo l’inquilino di Palazzo Santa Lucia non è esente da motivi di critica (dai toni utilizzati all’indirizzo di quelli che, più che cittadini, sembra percepire come sudditi alla tendenza a imputare sempre e comunque ad altri la responsabilità di ciò che non va in Campania, passando per uno scarso dialogo con le altre Istituzioni e realtà territoriali; in ogni caso, nulla che non fosse emerso già prima) ma come può, ad appena un mese di distanza dal voto, un popolo ribellarsi in maniera così dura nei confronti di chi ha appena rieletto alla guida della Regione con quasi il 70% dei suffragi, più di quanto (a dimostrazione di un notevole consenso personale) raccolto dall’enorme esercito di liste schierato a suo sostegno?

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Perché, al netto delle manifestazioni di piazza (nelle quali si incrociano ragioni diverse e, non di rado, perverse) e di quanto esse siano realmente rappresentative del sentimento maggioritario, l’impressione è che siano già in tanti ad aver sconfessato l’apprezzamento recentemente espresso nella cabina elettorale nei confronti dell’ex sindaco di Salerno. Tant’è che, pur nella condanna degli atti di violenza, non sono pochi a esprimere comprensione (se non proprio vivo apprezzamento) verso i contestatori.

Eppure logica vorrebbe che ci trovassimo ancora in piena ‘luna di miele’ elettorale, con la fiducia che i rappresentanti appena insediatisi si facciano carico delle nostre istanze che dovrebbe decisamente prevalere sulla frustrazione di non poter fare altro che urlare la propria disperazione per strada.

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Di sicuro la pandemia ha contribuito a polverizzare ogni forma di ‘normalità’ (e, verosimilmente, sulla piazza di Napoli pesano parecchie strumentalizzazioni) ma già gli scorsi anni ci hanno abituati, anche nel più ampio scenario nazionale, a repentini cambiamenti della barra del consenso: coalizioni politiche che, nella stessa tornata elettorale, mentre perdevano le loro storiche roccaforti espugnavano quelle avversarie; Renzi prima e il Movimento 5 Stelle poi che sono rapidamente passati dalle stelle alle stalle; ora anche lo stesso Salvini, con la sua Lega, che si ritrova a non avere più lo stesso appeal di appena un anno fa. Intanto i sondaggi preannunciano il boom di nuovi leader a discapito di altri.

Decenni di aspettative andate deluse ci hanno resi elettori nevrotici, pronti a dare fiducia a leader e a movimenti politici in maniera eclatante e, con altrettanto clamore, rapidi nel non rinnovare loro questo consenso, dopo aver verificato che i problemi sono rimasti tutti lì sul tavolo e non sono stati spazzati via in un baleno da atti taumaturgici, per i quali siamo disposti a rivolgerci, quindi, a nuovi stregoni.

Forse il punto è proprio questo: a furia di non credere più a niente e a nessuno e di essere sfiduciati verso qualsiasi progetto politico da coltivare collettivamente nel tempo abbiamo finito per credere in chiunque e in qualsiasi cosa si accosti meglio, di volta in volta, al nostro malcontento, senza badare realmente alle soluzioni proposte.

Ora rischiamo, in nome del rifiuto di provvedimenti che, comunque, sono stati adottati anche altrove (nel mondo!) e della pretesa di immediate risposte a un disagio socio-economico che viene da lontanissimo, di (ri)innamorarci pure della piazza. Che a Napoli (la cronaca che si fa storia e la storia che ritorna d’attualità) è da sempre il centro di raccolta delle più svariate (e spesso non propriamente edificanti) rivendicazioni, tanto da dar linfa a eclatanti contraddizioni.

Lo spiega bene lo storico Aurelio Musi in un suo recente saggio sulla figura di Masaniello. Il pescatore di Piazza Mercato, alla guida dei moti napoletani scoppiati nel luglio del 1647, ha finito, infatti, per rappresentare, al tempo stesso, il campione della rivolta contro l’autoritarismo governativo da parte del popolo oppresso e l’emblema delle proteste senza capo né coda, del ‘fare ammuina’ senza avere un approdo concreto, se non quello del disordine come condizione in cui poter portare avanti più comodamente l’arte dell’arrangiarsi.

Sono tutte cose su cui la politica dovrebbe riflettere, così da recuperare davvero un ruolo di guida, ma su cui faremmo bene a riflettere tutti, semplici elettori inclusi.

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