Non abbiamo mai preteso di dire che l’attesa fosse spasmodica ma, rimettendo le cose nella loro giusta dimensione, confessiamo di aver aspettato con curiosità di conoscere il nome del laureato Nobel per la pace 2020, con tutte le riserve che l’assegnazione di questo premio ha suscitato nel tempo.
Ritornando indietro con la memoria non possiamo dimenticare che gli accademici svedesi, sicuramente con grande gioia del barone mecenate, erano riusciti ad insignire del premio tanti presidenti Usa, da Roosevelt ad Obama, ma anche personaggi che con la pace non è che ci entrassero molto. Parlo del premio assegnato nel 1993 a Nelson Mandela con la motivazione che sottolineava il suo impegno per una soluzione “pacifica” del conflitto in Sudafrica, passando nel dimenticatoio bombe ed attentati; la stessa motivazione che aveva premiato l’anno seguente Rabin ed Arafat, il principe del terrorismo internazionale o, nel 2014, l’Unione europea, minimizzando il peso delle sue industrie produttrici di armi nella ricerca della pace nel mondo.
Quest’anno gli scommettitori inglesi, sempre protagonisti in questo genere di eventi, avevano pronosticato a colpo sicuro tre vincitori probabili: l’Organizzazione mondiale della salute OMS, Greta Thunberg e il primo ministro neozelandese Jacinda Ardern, con altre organizzazioni non governative come Medici senza frontiere in seconda battuta.
Pronostici senza valore che lasciavano molti dubbi. Senza nulla togliere all’Oms, la scelta sembrava molto azzardata per via dell’attitudine dimostrata dall’organizzazione nella gestione della pandemia, compito che le sarebbe spettato “d’ufficio”.
Così come non si riusciva a capire l’eventuale premio a Greta Thurnberg, diventata eroina della società contemporanea per la sua azione in favore della salvaguardia del pianeta, un hobby benefico che le occupa buona parte del tempo che i suoi coetanei dedicano allo studio, senza dimenticare le presenze televisive e sui media mondiali, il sogno degli adolescenti normali. E quale valore nascosto avrebbero ritrovato i giudici svedesi se la scelta fosse caduta su Jacida Ardern?
Un’impegnatissima governante ecologista che media e tivù prendono già per una santa, che parla come se camminasse sulle acque, che ha fatto persino un miracolo: quello di restare incinta nonostante il suo attivismo. La prima ministra, dopo gli attentati contro le moschee di Christchurch, novella signora De Lapalisse, avrebbe dichiarato che molte vittime erano degli immigrati e dei rifugiati che avevano scelto la Nuova Zelanda per farne la loro casa.
Certo pochi fatti gloriosi, ma dopotutto anche Obama aveva ricevuto il premio dopo soli nove mesi della sua presa di funzioni alla Casa Bianca.
L’anno scorso i laureati di questo festival umanista erano stati sicuramente più presentabili, con la scelta del primo ministro etiope Abiy Ahmed che era riuscito a concludere un avvio di pace con il suo turbolento vicino eritreo. Quest’anno la giuria è sembrata priva di immaginazione, oppure stanca del culto planetario riservato a Gretina Thurnberg e delle altre “amenità” societarie o, ancora più inquietante, protagonista di un complotto misogino, razzista anti-svedese ed ecolofobico.
La scelta è caduta quest’anno sul World food programme, il programma delle Nazioni Unite per combattere la fame, per migliorare le condizioni della pace in aree di conflitto e per la sua azione nel prevenire l’uso della fame come arma per promuovere guerre e conflitti; un organismo fondato nel 1961, con molte sedi periferiche ma con sede centrale stabilita a Roma, finanziato da contributi volontari e che per il solo anno 2019 è riuscito a distribuire 15 miliardi di razioni alimentari a oltre 97 milioni di esseri umani in 88 paesi differenti.
Ecco almeno il valore tangibile di questo premio. Grazie a questo programma alimentare mondiale almeno c’è gente che riesce a sfamarsi, mentre Greta o Jacida avrebbero soltanto intascato i 950,000 euro del premio, rigonfiandosi il petto, come oche giulive.
Nell’attesa, e malgrado il legittimo scetticismo che la gente prova nei confronti dei grandi ‘insiemi’ soprannazionali che non sono sempre i migliori amici degli Stati Nazione, possiamo dire di «averla scampata bella»
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