18, 19…e 22. Per Giuseppe Conte settembre 2020 è soltanto di 28 giorni. Il 20 e 21 non esistono, o meglio il suo piano è che non esistano e che quindi da sabato 19 si passi direttamente a martedì 22. Saltando a piè pari la due giorni elettorale.
E’ questo lo spirito con cui Palazzo Chigi punta ad approcciare alle regionali e al voto referendario. Far finta di nulla e concentrarsi sul lavoro di governo che c’è da fare da martedì 22 senza che nel frattempo sia accaduto qualcosa.
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Già questa estate, quando il premier Conte si era inabissato per due settimane, era stata tracciata la rotta. Separare il governo dalle vicende politiche-elettorali. Lasciare a Zingaretti e Di Maio il compito di mettere le mani sul delicato dossier elettorale, soprattutto dopo che l’intervista a Il Fatto Quotidiano con annesso appello all’unità delle forze di maggioranza anche sui vari territori (cioè accordo Pd-M5S), era stato bruscamente rispedito al mittente.
Ora che si avvicina la scadenza elettorale per Conte è ancora più indispensabile mettere in pratica tutto ciò, pena la caduta del governo. Un’ipotesi che soltanto a pensarla fa venire i brividi a chi da due anni è di casa a Palazzo Chigi.
Ecco perché Conte negli ultimi giorni ha pigiato il piede sull’acceleratore per presentare il Recovery Plan, spiegando ai ragazzi di Norcia che questo governo può cadere per decisioni degli italiani soltanto se fallisce sull’utilizzo dei fondi europei. Insomma, quello che uscirà dalle urne domenica e lunedì non avrà alcun peso sulla vita del governo il quale, invece, andrà giudicato soltanto sul Recovery Plan. E quindi se proprio questo governo deve andare a casa ne riparlerà tra qualche anno, forse nel 2023 cioè a fine legislatura.
Conte: «Governo bocciato da italiani se fallisce su Recovery Plan»
E non è un caso che nel documento presentato da Conte ai presidenti di Camera e Senato ci sia anche una lettera in cui esprime la piena disponibilità a riferire appena possibile al Parlamento sul piano. E un’occasione potrebbe essere il Consiglio europeo di fine ottobre.
Conte ha così tracciato il suo orizzonte, che non contempla assolutamente crisi di governo e, forse, anche rimpasti. Ieri i giornali almanaccavano di un accordo Conte-Zingaretti contro l’ipotesi rimpasto o, come preferisce Andrea Orlando, un «tagliando». La verità chiaramente sta nel mezzo. Sia Conte che Zingaretti sono consapevoli che mettere mano alla squadra di governo è affare molto delicato e i rischi che tutto crolli come un castello di carte sono tantissimi.
Soprattutto guardando al M5S che ormai è completamente fuori controllo, balcanizzato in bande che giocano la loro partita personale. E i risultati deludenti delle amministrative non faranno che acuire la crisi. In tal senso le polemiche su Rousseau e Casaleggio sono sintomatiche di quanto stia accadendo nel M5S e di quanto la crisi sia profonda. Soltanto la paura di perdere il potere e l’esercizio di quest’ultimo tengono insieme il quadro.
Ecco che pensare di mettere mano alla squadra di governo con un partito in queste condizioni sarebbe come gettare un fiammifero in una polveriera. Dall’altro canto però c’è il Pd che attende di vedere il risultato elettorale per capire quali mosse fare. Se questo fosse buono, e se soprattutto fosse evidente che nella sconfitta delle regionali il M5S avrebbe avuto un ruolo decisivo, è chiaro che il Nazareno chiederebbe un riequilibrio dell’assetto di governo. Che potrebbe anche non riguardare la compagine ma semplicemente l’agenda politica.
Tutti gli indizi chiaramente portano al Mes che in una situazione simile dovrebbe essere immediatamente attivato. Si spiega anche così il quotidiano stillicidio di dichiarazioni degli esponenti democratici a favore del Mes. E naturalmente ci sarebbe anche la riforma dei decreti sicurezza, che il ministro Lamorgese ha dovuto mettere da parte ma che adesso il Pd chiederebbe subito di avviare.
Rivendicazioni rispetto alle quali però è tutto da verificare quali effetti potrebbero produrre sugli alleati, M5S e Italia Viva, e più in generale sul governo. Il tutto, chiaramente, senza considerare l’effetto delle regionali, che nei desiderata di Conte non dovrebbe toccare il governo ma che nei fatti potrebbe travolgerlo.
Meloni: «Maggioranza proverà a fregarsene di vittoria Centrodestra»
Dal canto suo il Centrodestra attende di capire come si chiuderà la partita delle regionali e del referendum, su cui sembra esserci una ripresa del No, per sferrare l’attacco al governo. Giorgia Meloni però teme che tutto possa risolversi in un nulla di fatto: «Sono assolutamente certa che proveranno a fregarsene anche in caso di vittoria del centrodestra. Se questi signori avessero un minimo di interesse per quello che pensano i cittadini probabilmente non sarebbero già più lì ora».
Più sfumato l’atteggiamento di Matteo Salvini che sul voto delle regionali continua ad insistere nel dire che «non è un voto ideologico, è un voto molto concreto. Toscana e Marche votano da cinquant’anni a sinistra e c’è aria di cambiamento ma non per dare una spallata al governo, ma perché la Toscana non fa infrastrutture decenti da decenni». Una posizione più morbida frutto dell’esperienza maturata nelle elezioni emiliane quando proprio i toni duri e sferzanti portarono a una polarizzazione, favorendo l’avversario Bonaccini.
Lega presenta al Senato la mozione di sfiducia al ministro Azzolina
Ciò però non significa che la Lega abbia perso il mordente. Proprio ieri al Senato la Lega ha depositato la mozione di sfiducia al ministro Azzolina, puntando il dito sia sulla gestione fallimentare delle scuole e sia sul presunto plagio della sua tesi di laurea di cui anche alcuni giornali nelle scorse settimane parlarono.
Tutto comunque, con buona pace del premier Conte, è rimandato a dopo le elezioni; a quel 20 e 21 settembre che Conte vorrebbe togliere dal calendario ma che invece c’è e che senza alcun dubbio avrà un peso nei destini futuri del governo e della maggioranza.
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