Si poteva immaginare che i dirigenti di questa Europa difficilmente avrebbero lasciato il vertice senza aver trovato un accordo perché sarebbe equivalso ad ammettere che il battello dell’Unione fosse in avanzato stato di avaria ed in procinto di naufragare.
Così, quello spirito illustre di Michel, presidente del consiglio europeo, è riuscito a trovare un compromesso consentendo ad ogni capo di governo di ritornarsene a casa cantando, ovviamente tutti, vittoria mentre i problemi sono stati solo spazzati, insieme alla polvere, sotto i tappeti di quelle sale ora deserte.
La ricetta dei vertici europei è semplice e troppo ripetitiva: se non c’è accordo bisogna continuare ad ogni costo fino a quando il rosso sembrerà arancione ed il nero, apparirà grigio. Ed alla fine tutti i 27 hanno accettato, per la prima volta nella storia di questa Europa, un prestito comune non rimborsabile ai Paesi più colpiti dalla pandemia.
I Paesi del sud Europa hanno accettato un aiuto solidale che dovranno in ogni caso rimborsare anche se ad un tasso molto più favorevole di quanto lo sarebbe stato se ogni Stato avesse acceso un mutuo singolo. Presentato dal tandem di testa Franco-tedesco in nome della solidarietà europea e come un passo significativo verso una più spinta integrazione del continente, il progetto iniziale poggiava su una dotazione di 500 miliardi di euro come prestito collettivo e aiuto non rimborsabile.
L’accordo poi è stato fatto su 390 miliardi a cui devono aggiungersi altri 360 miliardi di prestito, questi da rimborsare. Una decisione che però non nasconde le tensioni esistenti soprattutto tra i cosiddetti paesi frugali (o taccagni); una fuga in avanti verso soldi virtuali che corrispondono sempre meno alla ricchezza reale e che ormai dovranno essere rimborsati, anche se solo parzialmente, in maniera collettiva.
Come in una favola di Fedro, sembrava di rivivere l’eterno battibecco tra le formiche e le cicale: il ribasso ha messo tutti d’accordo. Gli Stati virtuosi non si potranno considerare quindi buoni samaritani specialmente perché i loro governi devono rendere conto ai rispettivi cittadini dell’utilizzo delle loro tasse e perché i contribuenti ormai arrivati al colmo della sopportazione non accetterebbero mai che i loro sforzi finanziari possano servire a quei Paesi che viceversa non sono mai stati risparmiatori.
È il caso degli olandesi, che si sono dimostrati i più fieri oppositori dell’accordo iniziale e che con i sondaggi attuali sulle loro intenzioni di voto hanno dimostrato al premier Mark Rutte, che si considera un clone di Churchill e di Margareth Tatcher, il loro crescente euro-scetticismo e gli hanno consigliato il rigore che poi ha condotto nel corso del vertice.
Un rigore che se potrà essere servito sul fronte interno per soddisfare gli elettori, sul fronte esterno gli ha creato una serie di antipatie soprattutto da parte di Francia, Italia e Spagna per la politica fiscale del suo Paese che sfrutta l’Europa in termini di benefici sostanziali e da parte dei Paesi del gruppo di Visegrad, per la sua reiterata richiesta di condizionare gli aiuti economici al rispetto dello Stato di diritto, una tematica sempre ricorrente nel dibattito istituzionale soprattutto nei confronti di Ungheria e di Polonia.
Rutte ha fatto da capocordata ad Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia anche se poi il ruolo di mediatore finale è stato assunto dalla Germania sollecitata più che dalla necessaria solidarietà europea dalla sua bilancia esportazioni che avrebbe troppo sofferto per una possibile riduzione della vendita delle sue autovetture ai cittadini più ricchi dei Paesi poveri.
Il compromesso raggiunto al ribasso rappresenta una vittoria di Pirro, il solito refrain delle istituzioni europee che hanno così consentito a ogni statista di trovare l’alibi del proprio vantaggio economico e politico.
I Paesi Bassi, che restano un paradiso fiscale tollerato dall’Europa, sono i vincitori del vertice che hanno voluto al ribasso e per il quale hanno ottenuto una riduzione del 22% del loro contributo annuale alla gestione istituzionale, così come l’Austria che ha accettato il compromesso dietro una riduzione del 138% della sua, in rapporto alla proposta iniziale del presidente del Consiglio dell’Europa. Ma questo nessun Conte ce lo racconterà mai.
Il presidente Michel, alla fine si è rallegrato che per la prima volta il bilancio comunitario sarà legato agli obiettivi climatici e, per la concessione degli aiuti, al rispetto dello Stato di diritto.
Una predica che mal si accorda ad un personaggio che rappresenta tutta intera un’illeggitimità democratica tollerata. Oggi presidente del Consiglio europeo dopo essere stato primo ministro del Belgio alla testa di una coalizione di liberali valloni minoritaria in Vallonia e minoritaria nei paesi fiamminghi. Un’anomalia democratica che riassume perfettamente la situazione dell’Europa: l’Europa è un assemblaggio fragile di interessi verniciati politicamente dall’ideologia progressista
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